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Era alta come lo sono tutte le bambine della sua età, né più né meno. Indossava un cappottino verde sopra il pigiama quando entrò in assoluto silenzio dal grande cancello rosso. Erano le sei del mattino e vedere una bambina così piccola in giro a quell’ora era un po’ come se Babbo Natale fosse sceso dal camino il 15 di Agosto. Il sole non era ancora sorto, l’aria aveva l’odore pieno dell’inverno che avanza e le luci delle prime auto si scioglievano nella nebbia. Nessuno l’aveva vista, di questo, almeno, si poteva dire sicura. Salì le scale di corsa, si assicurò che la mamma fosse ancora nella sua stanza, ancora addormentata, poi si sedette sul proprio letto, prese un libricino bianco da sotto il cuscino e una penna dalla scrivania – una di quelle penne a quattro colori, rosso, verde, nero e blu. Le era sempre piaciuto scrivere in rosso.

Devo fare in fretta. Mi chiamo Brivio Eva, ho otto anni e mezzo, quasi nove e devo fare in fretta. Devo scrivere tutto prima che mi trovino. E mi troveranno e mi prenderanno, so che mi prenderanno. Ma scriverò veloce, più veloce che posso e senza correggere, così scriverò tutto. Farò un po’ di errori, ma non importa.

Abito in una grande casa bianca e gialla, non lontano da Milano, a California. Non in California, a California. Si chiama così il posto dove vivo. Non è una città, ma non è neanche un paesino. Per me è grande abbastanza. Sarebbe bello abitare in California, ma mia mamma non ci verrebbe mai, lei ha paura di volare. Io invece ho paura delle api e dei boschi. Frequento la terza elementare e non mi sono immaginata niente di quello che sto scrivendo, lo prometto, croce sul cuore potessi morire. Croce sul cuore potessi morire è un giuramento, lo facciamo sempre io e mia cugina: ci facciamo una x sul cuore e poi diciamo: – Croce sul cuore potessi morire! – e questo significa che quello che dici è vero per davvero, se no muori. Che poi morire non ho mai capito cosa significa esattamente. Mia mamma usa quella parola quando parla di papà, ma a parte che non c’è più, che lo vedo solo nelle foto e nei filmini di quando eravamo in Grecia insieme, non so altro. Credo che molta gente sia morta, comunque. Mia nonna dice che prima era papà ad avere paura di volare, non la mamma. Poi, dopo che è morto, alla mamma è venuta la paura di volare. Forse è questo che significa morire. Ma io non lo so, ho solo otto anni, otto e mezzo, quasi nove.

Sto perdendo tempo, mi troveranno, devo scrivere più veloce.

Vado alla Valdoca e dopo la scuola all’oratorio S. Francesco. Sto sempre con Laura, che è mia cugina ma anche la mia amica del cuore. Lei è più piccola di me e le piace la musica classica, dice che da grande diventerà una pianista; secondo me sarà brava. Indossa salopette e jeans, mentre io metto sempre le gonne perché ho delle belle gambe. Io e Laura abbiamo la stessa nonna e sua mamma e suo papà sono i miei zii. Mia mamma è più vecchia di mia zia di dieci anni, ma mia zia si chiama Marlena ed è stata in collegio da piccola.
Ieri stavamo giocando a pallavolo nel campo dietro la chiesa e ho visto Massimo che scendeva nel salone, quello sotto la chiesa. Di solito è chiuso, tranne quando ci facciamo gli spettacoli di Natale – ma ieri era il 18 e siamo a Novembre. Sono scesa anch’io. Non l’ho detto a Laura, non volevo che mi prendesse in giro: dice che a me piace Massimo, ma non è vero. Volevo vedere cosa stava facendo, perché era strano e si teneva il braccio destro come se gli facesse male.
Prima del salone c’è un lungo corridoio con le pareti metà marroni e metà bianche. Di lato ci sono sei porte: non sono stata in tutte e sei, solo nel magazzino, nel bagno e nella stanza verde (la seconda a sinistra, con le pareti tutte verdi), dove c’è la televisione e dove Don Luigi chiude a chiave le scorte di caramelle. Sentivo delle voci venire da quella stanza.
- È stanotte – ha detto una delle voci - Stanotte alle 4. - Non avevo mai sentito nessuno parlare delle 4 di notte. È stupido, ma mi ha spaventato.
- Dove ci vediamo?
- A casa mia?
- No, ognuno deve uscire da solo, non devono esserci testimoni.
- Ci vediamo al posto?
- No, ci vediamo dietro il muretto della Valdoca, quello basso.
- Alle 4?
- Alle 4.
Pensavo che volevano andare a fare un giro di notte, spaventarsi, una cosa così. L’ho fatto anch’io una volta: sono stata con Laura al cimitero, di notte. Ma non siamo davvero entrate, non volevo che mio padre mi vedesse. Non so perché ho pensato una cosa del genere, ero piccola tutto qui.
- Dobbiamo essere sicuri, non potete sbagliare. I gessetti devono essere bianchi, portatene uno ciascuno – Era la voce di Silvia. Silvia era la più stupida e ricca della mia scuola. Non capivo cosa ci faceva lì, forse si era baciata con Massimo, ma non mi importava.
- E non dovete dire niente a nessuno finché vivrete. Avete giurato.
- Nessuno dirà niente.
- Nessuno – disse ognuno di loro. Erano otto voci.
E in quel momento mi hanno sentito. Non so come, forse ho respirato, forse ho spinto sulla porta, non lo so. Hanno aperto e sono caduta dentro.
C’erano quattro ragazze e quattro ragazzi. Forse dovrei dirvi tutti i nomi, i nomi di quelli che c’erano, quelli che mi verranno a prendere. Ma non li so. Ve lo prometto, croce sul cuore potessi morire, non li so. Conoscevo solo Massimo e Silvia e altre due ragazze, Maria e Delia, che viene dal Perù, e un ragazzo grande che fa le medie e si chiama Pagnotta – anche se non è il suo vero nome. Mi hanno chiuso dentro con loro, mi hanno chiesto cosa avevo sentito – Parla, cos’hai sentito! Cosa sai, cazzo? – urlava Pagnotta battendomi con una mano sulla testa e sputandomi in faccia il fumo della sua sigaretta. E Don Luigi non permette a nessuno di fumare. – Niente, stavo... non ho sentito... niente... - avevo paura come non ho mai avuto paura in vita mia. Altri due ragazzi grandi come Pagnotta cercavano di calmarlo, dicevano che non contavo, che ero solo una bambina. Mi hanno fatto uscire, non sapevano che altro fare. Mi hanno detto di non parlare con nessuno, che se no mi venivano a prendere a casa e prendevano anche mia mamma e mio papà e li ammazzavano. E Massimo ha detto – Lasciala stare, lei non ce l’ha più il papà. Basta così. – poi mi ha guardato senza toccarmi – Vai a giocare, Eva -. È stata la cosa più dolce che mi abbia mai detto, perché sembrava che voleva baciarmi. Forse mia cugina ha ragione.
Non ho giocato e non ho detto niente a nessuno, nemmeno a Laura. Volevo andarci anch’io nel bosco di notte. È la cosa più stupida che abbia mai pensato, ma è stato come quando mi sono fatta fare il buco all’orecchio. Ho insistito così tanto con il negoziante di orecchini che mi ha creduto che avevo il permesso della mamma, anche se non era vero, e mi ha fatto il buco. Ecco, così tanto ho insistito con me stessa che la paura è diventata un’altra cosa. Credo che i grandi usino la parola eccitazione. Ero eccitata. Mia nonna dice che l’eccitazione ti fa fare un sacco di cose stupide nella vita, e ha ragione.
Sapevo come fare. Mia mamma prende le pillole per dormire, se no ha troppo mal di stomaco e deve passare la notte a mangiare un sacco di zucchero con il cucchiaio. Così di notte a volte mi alzo e mi metto a guardare la tv o gioco con il computer. Una volta che Laura era venuta da me abbiamo giocato a nascondino e la mamma non si è svegliata nemmeno una volta. Così ho aspettato che si addormentasse. Ho aspettato ancora. Volevo andare anch’io, volevo essere come loro, volevo essere grande.

Ora, mentre scrivo velocissima sul mio diario, mentre il sangue mi esce dai piedi e ho i capelli zuppi e le labbra tagliate, ora che ho visto tutto, essere grandi non mi sembra una gran cosa. All’improvviso esistono cose reali e cose che non lo sono, ma quelle che lo sono sono tutte sbagliate.

Ho preso la pila, mi sono messa il cappotto sopra il pigiama e le scarpe da ginnastica vecchie, quelle blu e nere. Sono uscita da dietro, dove c’è il giardino. La prima cosa che ho visto è stata la luce della luna: era enorme, così grande che vedevo benissimo anche senza pila e facevo ombra come sulla spiaggia d’estate. Il mio cane Quana non ha detto niente. Ho preso la bici e sono uscita dal cancello rosso, quello grande, perché quello piccolo che dà sulla strada quando lo chiudi fa troppo rumore. La mamma non avrebbe sentito comunque, ma io sì e non volevo sentirmi.
Ho pedalato fino alla scuola. Non c’era nessuno, solo quattro biciclette e due motorini. Quello di Pagnotta è senza carrozzeria, si vede tutto il motore. Volevo tornare indietro, ma la mamma dice sempre che le cose non si lasciano mai a metà.
Ho saltato il muretto e sono caduta in un cespuglio, dall’altra parte è molto più alto. Il sentiero lo conoscevo perché una volta sono andata fino al laghetto con i miei compagni di classe, siamo scappati durante un’ora di supplenza e ho preso una brutta nota per questo. Ho cominciato a correre, perché a me i boschi fanno paura, eppure non riesco a starci lontana. Forse ha a che fare anche questo con l’eccitazione, non lo so. Non si sentiva niente, nessun animale, solo la luce della luna e il mio respiro. Sono arrivata fino alla fabbrica e oltre la fabbrica al laghetto. E all’improvviso sono caduta. Ho aperto gli occhi e avevo la bocca piena di terra, ho sputato, qualcosa mi spingeva giù con forza. Era un ginocchio. Non riuscivo a vedere niente, sentivo solo male nella schiena. Ho provato a dire qualcosa, ma una mano mi ha spinto più giù, nella terra. Ne ho mangiata ancora. Credo che le labbra mi si sono rotte lì. Poi ho sentito la voce di Massimo che mi chiamava. – Aspetta, no! – ha urlato e secondo me c’era una luce più forte dietro la mia testa in quel momento. Poi ha fatto male. All’inizio ho sentito solo un colpo, poi un dolore che non smetteva e la terra sotto la bocca ha cominciato a bagnarsi diventando fango. Ho bevuto un po’ e sapeva di sangue, puzzava anche di sangue. Mi sono agitata, ho spinto e pianto e la terra era sempre più bagnata. Poi mi hanno alzato e mi sono toccata la testa, era umidiccia e faceva male e per terra c’erano un po’ dei miei capelli rossi. Ho visto Massimo in piedi che mi guardava triste. – Mi dispiace, Eva. Perché sei venuta? Dovevi stare a casa – ripeteva – dovevi stare a casa.
- Dovevamo essere solo otto. Lei che c’entra? – alle mie spalle c’era Pagnotta, era lui che mi aveva spinto a terra, che mi aveva colpito; aveva un coltellino in mano, uno di quelli rossi con un sacco di cose dentro.
- Ormai è qui.
- Nove non va bene, Max, era otto il segno che avevi, otto! – e Massimo allora ha sollevato la manica e sul suo braccio c’erano otto tagli con la crosta. Ecco perché se lo teneva. Si è avvicinato a Pagnotta, gli ha preso il coltello e si è fatto un altro segno. Senza dire niente tranne: - Adesso sono nove.

Stanno arrivando lo so. Sanno dove abito e saranno qui. Non riesco a scrivere più veloce di così, le dita non mi stanno dietro, sono lenta, troppo lenta.

Mi hanno portato con loro. Ho pianto, perché non volevo, anche se un po’ desideravo ancora essere grande. Erano tutti lì, oltre il bosco, vicino a un burrone che non vedevo dove andava a finire e prima del burrone c’era un pezzo di terra dura che finiva nel vuoto. Sul pezzo di terra c’erano dei segni bianchi, li stavano tracciando loro con i gessetti.
- Non dovevamo essere solo otto? – ha chiesto Silvia, lei che non mi ha mai invitato alle sue feste di compleanno.
- Non importa – ha detto Massimo e ha preso un gessetto e me lo ha passato. Ho capito che dovevo aiutarli a finire. Stavano disegnando le caselle del gioco della campana, che Delia però chiamava mundo. Avevano già fatto la Terra e le prime sei caselle. Io ho fatto quella del 7 e ho notato che quella dell’8 e del 9 erano proprio sul limite e la cosa mi faceva paura, perché l’ultima, la casella del cielo, doveva proprio stare là dove c’era il vuoto.
Maria si è avvicinata e mi ha detto di togliermi le scarpe, poi ha sorriso – Giochiamo? – ha detto.
- G-giochiamo? – ho chiesto mentre mi toglievo le scarpe e restavo a piedi nudi come quando vai in piscina.
- Sì, siamo qui solo per giocare, Eva.
- Mi state facendo uno scherzo? Siete... siete cattivi.
- Non è uno scherzo, stiamo giocando.
- A campana. Sai giocare a campana, vero? – Quei numero erano troppo vicini al bordo, troppo. Non ho risposto.
- Devi giocare, cazzo, adesso che sei venuta qui giochi! – ha urlato Pagnotta, colpendomi di nuovo con la mano sulla testa. Allora volevo andarmene, ma poi Maria e Delia si sono avvicinate e mi hanno tenuta ferma, mentre Pagnotta ha allungato la mano e ho visto la lama e ha usato la lama e mi ha tagliato sotto i piedi. Questo ha fatto male subito, ma mi tenevano i piedi fermi e non riuscivo a scappare e sono caduta. Mi sono stretta i piedi e ho pianto chiedendo perché.
- Perché di sì – mi hanno risposto.

Il sangue non ha ancora smesso di uscire e ho sporcato il letto e la mamma domani lo vedrà. Ho i brividi e devo scrivere più veloce.

Massimo si è avvicinato.
- Eva, smettila – ha detto gentile – Eva, tu sai cos’è la gravità?
- Non capisco – e davvero non capivo, cioè, certo che so cos’è la gravità, ma cosa c’entrava?
- Sai che la terra ruota nello spazio e la gravità ci tiene attaccati al suolo?
- Sì.
- E sai cosa succederebbe se il mondo si fermasse?
- Il mondo non può fermarsi...
- Se si fermasse verremmo tutti sbalzati nello spazio, moriremmo tutti. Non ci sarebbe più il mondo.
- Ma io ci sarei, no? – era una cosa stupida da dire, lo so.
- No, tu moriresti come tuo padre. E anche tua mamma morirebbe, ma anche se morirete insieme lei non sarà più con te, sarai sola.
- Noi siamo qui perché il mondo si sta per fermare – ha detto Maria e lo ha detto così piano che io ci ho creduto – e dobbiamo giocare perché continui a correre.
- No, non è vero.
- È vero – ha detto Delia che ha gli occhi blu di quattro blu diversi e quando ti guarda senti il mare – sembra impossibile ma è vero. Senza il gioco il mondo si ferma, ecco perché si chiama mundo.
- È una cosa che succede sin dall’antichità, ogni anno, in un giorno diverso, in un posto diverso. In tutto il mondo. – Scherzava, per forza. Come faceva lui a saperlo?
Ma aveva nove tagli sul braccio e forse non scherzava.
- Va bene. – ho detto. Non so perché. Ho pensato alla mamma e a Laura e a Quana e se fossero morte per colpa mia non sarei stata bene. Non volevo che stessero nel cimitero, di notte, ad aspettare. Massimo mi ha stretto un piede, lo ha fatto piano come si fa con le bambole. C’era odore di cenere in quel momento, e non so perché, ma anche Pagnotta mi ha sorriso. E io sono restata. Massimo si è sporcato la mano del mio sangue e non so cosa vuole dire esattamente, ma sono restata.
- A campana?
- A campana.
Ho preso un sassolino, uno non troppo grande e nemmeno troppo liscio se no scivola e mi sono messa in coda. Non bisognava per nessuna ragione toccare le strisce né fermarsi, e avrei tanto voluto chiedere cosa succedeva quando si arrivava al cielo. Ma non ho avuto il coraggio.
Hanno cominciato a giocare e ho visto che tutti erano a piedi nudi e tutti sanguinavano. Forse perché non dovevano scappare, o forse perché il sangue doveva scendere nelle caselle, non lo so. Massimo ha lanciato il suo sasso nella casella 1 e ha saltato. Poi lo ha fatto Pagnotta; e così via. E cantavano, cantavano le canzoni dei bambini. Quella dell’arca e quella del naviglio e quella del ballo del qua qua.
Sempre più veloce, come la Terra che gira. – così ha detto Massimo. Vedere giocare i ragazzi grandi era strano, soprattutto Pagnotta. È uno che va ai parcheggi con il motorino, si picchia con i suoi amici e nessuno di loro ha un nome vero. E stava giocando a campana con me.
- Più in fretta – dicevano - Più in fretta – avevo paura, il cielo si avvicinava con il suo vuoto.
- Più veloce, corri! Corri o la terra si ferma!
- Corri!
Urlavano e Silvia mi spingeva e Massimo ha cominciato a urlare anche lui – Più veloce, più veloce!
E io andavo più veloce, mi girava la testa e saltavo come se stessi correndo. Sentivo la Terra muoversi sotto di me, non scherzo. Ho capito che non potevo fermarmi perché ogni volta che ci provavo sentivo che stavo per volare via, che il mondo si stava fermando. È così. Croce sul cuore potessi morire, è quello che è successo. E i numeri si sono sporcati tutti di rosso e arrivavo al 7, raccoglievo il mio sassolino e tornavo indietro. E arrivavo all’8 e vedevo il burrone, ma non potevo più fermarmi e nessuno si fermava. Cantavamo le canzoni e giocavamo. Sono arrivata al 9 e ridevo e cantavo e ridevo sempre più forte. Sempre più veloce. La luna era grande, c’era tanta luce e vedevo bene dove finiva tutto. Poi un sassolino è arrivato al cielo, tutti cantavano e ridevano perché finiva così, perché la Terra era salva e il mondo non si fermava. Veloce, veloce Silvia ha lanciato il sassolino e il sassolino è caduto oltre il burrone, nel cielo, e lei andava veloce e cantava e io ridevo e la vedevo che saltava e avevo capito che era tutto vero che se sbagliavamo erano tutti morti, era vero, croce sul cuore potessi morire croce sul cuore potessi morire era vero.
E poi non l’ho vista più e la Terra era salva.

Ho pianto, ho urlato, ho detto che lo andavo a dire a tutti che era sbagliato che era meglio se il mondo moriva perché adesso Silvia era morta e il mio papà era morto e non andava bene e Massimo si è avvicinato ma io sono scappata. Ho corso, corso in mezzo al bosco, avevo paura, ma ho corso e sono arrivata alla bici e sulla bici ho corso fino a casa, sono venuta qui e ho scritto tutto e ora ho finito e loro sono qui. Sento il cancello, sento che entrano, mia mamma non sente nulla perché dorme.

Mi chiamo Eva e non ho più otto anni e mezzo quasi nove, ne ho molti di più. Sono cresciuta in una notte, tutta insieme, veloce come la pubblicità delle crystal ball che mi piace. Adesso so molte più cose, cose che a scuola non ti insegnano. So che le favole nascondo sempre degli orrori. So che ai bambini nessuno presta attenzione perché gli adulti dimenticano tutto quello che sanno quando sono bambini. So perché quando ho dormito dai miei zii, mia zia urlava - Più veloce! Sì! Così! – e so che quando esce il sangue dai piedi dopo un po’ ti vengono le formiche. So che suono fa un corpo quando cade per non rialzarsi più. Croce sul cuore potessi morire, lo so. E so che era tutto vero, che questo gioco è un rito, il rito più antico del mondo. Che tiene insieme ogni cosa e che se avessi fermato Silvia ora saremmo tutti morti, voi compresi. Mi batte forte il cuore e la luna non c’è più e continuo a ripetermi che domani, a mia mamma, verrà la paura delle api e la paura del bosco.

Salirono le scale in silenzio. Erano sette, tutti più alti della loro età. Entrarono in camera, la presero e la portarono via, come il tempo si porta via il dolore, come un amore ne cancella un altro, come ogni estate si canta una nuova canzone. Per non farla tornare mai più. Ma Eva Brivio, otto anni e mezzo quasi nove, aveva scritto tutto. Era stata veloce abbastanza.


FERRARI, Alessandro (Milano, 1978).

Alessandro Ferrari è nato a Milano il 1 settembre 1978. Vive ad alta velocità tra Bergamo/Orio al Serio e Roma/Ciampino sul volo Ryanair delle 17:10. Scrive e sceneggia fumetti per la Walt Disney Italia. Ha realizzato, in collaborazione con un pittore, una fotografa e un'attrice, 'Atene, 14 Marzo 1997', opera a fumetti in mostra dal 2004 a Milano e provincia in case stregate e chiese sconsacrate. E tanto basta. Il suo blog è qui.