Evangeline camminò verso il centro esatto della strada, e tutti gli occhi dei presenti si fissarono sul suo culo, ondeggiava ritmicamente passo dopo passo, sotto un paio di jeans tanto attillati da essere considerati fuorilegge in almeno due contee.
Tutti gli sguardi erano puntati sulle sue chiappe ipnotiche, anche se la maggior parte dei buzzurri presenti erano lì solo per vedere le macchine correre, il paradisiaco culo di Evangeline era uno spettacolo che valeva la pena di seguire, almeno per un momento.
E lei lo sapeva.
Raggiunse il centro della carreggiata, un lungo nastro d’asfalto diviso in due da una riga gialla. Evangeline si voltò, mettendosi ritta in piedi, a cavallo delle sue corsie. Qualcuno si mise a fischiare, come fanno i bovari.
Evangeline alzò il braccio destro sorridendo al richiamo, aveva una bandana stretta nel pugno, sopra c’era stampata la bandiera più bella del mondo.
La Stars and Bars degli stati confederati, si agitava mossa dal vento tra le dita di Evangeline, nel momento in cui l’avesse abbassata, le due macchine che rombavano a cinque metri da lei sarebbero partite. Questo era il segnale.
Il tanto atteso segno, quello che in molti aspettano di ricevere per tutta la vita, quel segno divino in grado di indicarti la via da seguire, o le scelte che devi fare, in quel caso proveniva da una dea bionda di ventidue anni, con in mano la bandiera che accompagnava gli eroi Gettysburg.
La scelta che ti diceva di compiere era molto semplice.
Schiaccia il piede sull’acceleratore, abbraccia la fede della velocità, brucia dieci miglia di asfalto, raggiungi i Johnson’s Pitts e torna indietro, prima che lo faccia il tizio che sfreccia sulla corsia di fianco alla tua.
In conferma dell’atto di fede, i motori delle due auto che Evangeline aveva di fronte, ruggirono quando lei alzò il braccio.
Entrambi i piloti fissarono lo sguardo su quella bandiera, aspettando il segnale, tenendo i motori su di giri, pronti a lasciare la frizione per una partenza furiosa.
Greg Palmer guidava una Plymouth Barracuda nera del 1971, nuova di zecca. Sotto il cofano aveva un V8 426 con camera di combustione emisferica, alimentato da due carburatori quadricorpo Carter da 550, scaricava 425 cavalli sull’albero e 350 sulle ruote posteriori.
Giù in paese, tra i tavoli del Cletus Inn, i ragazzi dicevano che Greg fosse in grado di sparare la Barracuda da zero a sessanta miglia orarie in meno di quattro secondi, ma lo dicevano quasi sempre sottovoce, perché le leggende devono per forza essere sussurrate.
Bruce Ladd era al volante di una Dodge Charger R/T del 1970, verde bottiglia.
Montava un motore 440 Six Pack, 8 cilindri a V, alimentati da tre carburatori doppio corpo Holley, tre carburatori per due corpi, ovvero un pacco da sei, come per le lattine di birra.
Mesi prima, nel maggio più caldo a memoria di texano, in molti avevano visto Bruce percorrere un quarto di miglio in quattordici secondi.
Greg e Bruce si conoscevano da anni e molto probabilmente si odiavano già prima di venire al mondo. Per quanto sia vero che ciascuno è l’artefice del proprio destino, è anche vero che nessuno può scegliere in quale parte del mondo nascere. Greg Palmer e Bruce Ladd erano nati entrambi a Lorraine, Texas.


Buco-di-culo Lorraine, Texas, era un posto tanto piccolo dove un unico drugstore bastava per tutti, ed era impossibile farci razzolare due galli senza, perlomeno, concedere loro di gonfiare i petti e beccarsi ogni tanto.
I vecchi sputatabacco che incartapecorivano sotto i portici della buco-di-culo main street, lo avevano capito da subito che quei due, oltre ad odiarsi, sarebbero ben presto finiti nei guai.
E così, tra uno scaracchio e l’altro, fantasticavano su madri piangenti in viaggio verso il carcere di
Huntsville, di matrimoni riparatori, o della prematura morte di uno dei due, morte violenta, stanne certo amico, che finiranno così.
Nel 1962, appena compiuti sedici anni, Greg e Bruce si sedettero subito dietro un volante, e iniziarono a darsi da fare, per mantenere le aspettative. Vivere veloci, morire giovani e lasciare un buon cadavere.
Ogni tanto decidevano di prendersi un po’ a pugni, sopratutto se si ritrovavano entrambi nel parcheggio dello Starlight, cosa che accadeva spesso, visto che lo Starlight era l’unico Drive In nel raggio di cinquanta miglia ad avere una programmazione decente.
L’unica fortuna, per la gente Lorraine, fu quella che entrambi avevano un carattere troppo solitario per mettere su una banda. Altrimenti sì che ci sarebbero stati guai seri per tutti.
Greg, alla fine, si era laureato come campione di corse clandestine.
Molti figli di papà arrivavano da Austin per sfidarlo, ci rimettevano la macchina e un mare di dollari. La domenica mattina, potevi vederli alla stazione degli autobus, con la faccia grigia, a spulciare gli orari per tornare a casa.
Bruce, preferiva il brivido di caricarsi sui sedili posteriori quella particolare categoria di passeggeri che, dopo un prelievo in banca, ha bisogno di un passaggio veloce verso un luogo sicuro.
E se il prelievo in banca viene fatto con un fucile a pompa Remington 870 Wingmaster, calibro 12, avere a disposizione un autista in gamba diventa una priorità.
Per anni, lo sceriffo Coburn, un omone di cinquant’anni, docile come un coyote aggrovigliato nel filo spinato, aveva deciso di dare il tormento ai due bulli cittadini.
Il bilancio della guerra privata tra lo sceriffo Coburn e i due assi del volante di Lorraine, era decisamente a favore degli ultimi due.
Oltre ad aver mangiato badilate di polvere, ingoiato litri di bile, sbriciolato una Ford Galaxie inseguendo Bruce Ladd, e fuso una Chevrolet Impala in un testa a testa con Greg Palmer, ci aveva rimesso anche due incisivi, andando a sbattere contro il volante della sua Plymouth Fury.
Era troppo, anche per un mastino come Coburn. Allora decise che a quei due, ci avrebbe pensato direttamente Dio, magari sotto forma di un chiodo che gli faceva esplodere un copertone, o facendoli entrare in una curva con la traiettoria sbagliata. Oppure, ed era un pensiero su cui rimuginava a lungo, Dio poteva assumere la forma di un autoarticolato Mack da 18 ruote, che si metteva di traverso sulla carreggiata prima che uno dei due si rendesse conto di essere seduto su un razzo d’acciaio, e che era impossibile fermarsi nello spazio che li separava.
Insomma, prima o poi quei due bastardi sarebbero morti.
Coburn doveva solo aspettare, andare dal dentista, guidare piano e dare una marea di calci in culo agli Hippie di passaggio.
Dichiarò guerra a quei cazzo di furgoni Volkswagen, e visse felice.
Quel giorno, il 31 luglio del 1971, i due assi di Lorraine, non si sa perché, decisero di sfidarsi direttamente. Una gara sul circuito classico, dalla Collina ai Johnson’s Pitts e ritorno.
La notizia di una corsa in macchina che li vedeva competere uno contro l’altro, aveva viaggiato lungo la Highway 281 da Stephenville a Hamilton, fino giù, verso Lampasas, sfiorando le sponde del lago Buchanan.
Infatti, ai bordi della strada, ad aspettare che le gomme della Barracuda e della Charger urlassero nel furore della partenza, c’era un sacco di gente.
Dal lago erano saliti anche un paio di Topi di Palude, a bordo di un vecchio Pick Up.
Ora se ne stavano lì, con le mani infilate nelle tasche delle loro salopette, per vedere che cazzo succedeva, e se ne era valsa la pena di venire fino a lì, o se era meglio rimanere nella baracca a scoparsi la cugina Brandine.
Per la maggior parte, il pubblico presente era composto da appassionati di motori, e lo si capiva da quanto erano curate le auto che c’erano ai lati della strada. Era un garage delle meraviglie a cielo aperto. Accanto al merdoso Pick Up dei Topi, c’era un cowboy di Dallas, con le chiappe appoggiate al cofano della sua Corvette Stingray 327, blu notte.
Guardava verso i due che stavano per partire, e ogni tanto lanciava qualche occhiata di sfida al tipo che aveva di fronte, dall’altro lato della strada.
Un tipetto magro e nervoso, che aveva fatto disegnare sulla sua Dodge Super Bee 440, un inferno di fuoco che partiva dal cofano e ne incendiava i lati.
Due anni prima, la Ford aveva chiamato un filosofo e un team di meccanici, chiedendogli se era possibile imprimere nell’acciaio il concetto stesso di Uomo. Loro avevano detto si, e ne era uscita la tesi di filosofia chiamata Mustang Shelby GT 500. Su quella strada ne erano venute sei, e sudavano testosterone dai tubi di scappamento.
Tutti erano arrivati lì per capire chi fosse il migliore. Per vedere con i loro occhi come la Charger di Bruce avesse affrontato la curva a gomito del sesto miglio, un traiettoria difficile da mantenere oltre le 110 miglia orarie, ed era fondamentale prenderla all’interno, per non essere bruciati sul rettilineo successivo.
Poco prima dei Johnson’s Pitts c’era un dosso, e quel bastardo faceva la differenza. In molti ci avevano rimesso le sospensioni, altri erano stati lanciati fuori dalla strada, il dosso aveva fatto impennare le loro auto, come un serpente a sonagli che fa imbizzarrire un cavallo. Quel dosso, avrebbe morso anche Barracuda di Greg?
La strada, tra poco, avrebbe risposto a tutte le domande di sua competenza. Purtroppo, alcune risposte nemmeno l’asfalto era in grado di darle.
Perché quei due avevano deciso di sfidarsi?
Che cosa c’era in palio?
Nessuno lo sapeva tranne Bruce e Greg, e nessuno aveva avuto il coraggio di andare a chiederglielo.
Correvano, questo importava, ed era sufficiente per radunarsi tutti alla Collina per assistere a quella gara destinata ad essere raccontata sottovoce, perché è così che si raccontano le leggende.
Evangeline camminò verso il centro esatto della strada, e si voltò, mettendosi ritta in piedi, a cavallo delle sue corsie.
Alzò il braccio destro, aveva una bandana stretta nel pugno, sopra c’era stampata la bandiera più bella del mondo.
L’abbassò di scatto.
E Bruce e Greg andarono in contro al loro destino.



Sceneggiatore atomico in forze alla Bonelli (Napoleone, Zagor, Dampyr) e alla BD (Milano Criminale). Esperto di segrete cose, corre con una macchina nera, schermata dai raggi 'Z' spediti al suo cervello da Zeta Reticuli.
QUI trovate il suo blog.

4 commenti:

RRobe ha detto...

Bello. Tanto.
Però una perplessità m'è venuta e la rivolgo direttamente a Diego: secondo te, se gli avessi dato una ambientazione italiana, non avrebbe funzionato lo stesso?

Planetary ha detto...

Bellissimo stile :)
Anche se son rimasto con la curiosità di sapere perchè corrono :D

Diego Cajelli ha detto...

@Robe:
Essì, funzionava uguale, con alcune varianti.
E' che mi andava di farlo estero!

@Planetary.
Essendo un omaggio agli anni '70, il fatto di non sapere il perchè corrono, fa parte dell'omaggio!
:-)

il prins ha detto...

Da modesto appassionato mi sento di spezzare una lancia in favore dell'ambientazione estera. Proprio per la scelta così accurata delle auto. Magari son solo dei dettagli del racconto (che quindi avrebbe potuto funzionare ugualmente benissimo in Italia) ma aiutano a creare, secondo me, la sensazione di velocità brutale e vibrante (forse ignorante). Sensazione che solo una Dodge Charger del '68 nera può dare (e non verde e del '70);)
Proprio bello Diego