“ma sei ritardato?”
“quando?”
“che cazzo di risposta è quando?! Uno ti chiede se sei ritardato e tu rispondi quando?”
“avevo capito se ero in ritardo!”
“’fanculo, dai qua!”
Benjamin Zeena, detto Ben, odiava due cose: i ghiaccioli all’amarena, e quel coglione di Ryad quando gli comprava il ghiacciolo all’amarena.
“Gli altri erano finiti!” si giustificò l’algerino seguendo il ragazzo più grande nel cantiere.
“Sei un ritardato Ry!”
“ma perché?”
“perché Dasser ha SOLO ghiaccioli all’amarena testa di cazzo! E tu continui ad andare da lui!”
“ma lui mi dice sempre che gli altri gli devono tornare, che li ha finiti!” ansimò combattendo di mascella contro l’involucro del ghiacciolo.
“Ti prende per il culo!” urlò Ben sparendo nell’oasi buia di cemento.
“Maledetto Dasser!” ciancicò Ryad, gelandosi un dente addosso al ghiaccio rosso sangue e mettendosi a correre per raggiungere l’amico.

MOTUS IN FINE VELOCIOR.
Ben esibiva fiero la scritta tatuata sulle spalle mentre i muscoli del collo si gonfiavano contro la sbarra ad ogni flessione, da lì in cima poteva osservare il quartiere tutto, e ogni goccia di sudore che cadeva sulla polvere era una promessa rivolta verso di esso.
Si staccò dalla sbarra con un tonfo e una nuvola di polvere, raggiunse il branco, si accese una sigaretta, e li guardò.
Laura era snella e bianca, leccava il gelato e pensava che un giorno se ne sarebbe andata da lì, magari sarebbe diventata ricca e si sarebbe pure rifatta le tette.
Ryad era algerino, sceglieva con cura le tracce nel lettore cd, perché la colonna sonora è importante, specialmente quando sta per arrivare il tramonto, e pensava che prima o poi si sarebbe fatto Miha, che di musica si che ne capiva.
Miha era mulatta,alta e giusta, il cappuccio sulla testa e la canna tra le dita la dicevano lunga su quello che pensava del mondo.
Remo, il mangiamele, era un italiano dai capelli scuri, e la storia della cicatrice sulla guancia e del poliziotto morto ormai la conoscevano anche i muri.
I muri.
I muri del cantiere cantavano una cantilena che solo loro potevano udire, era una filastrocca che parlava di furti e di corse,di fumo e di salti,fatta di sputi, di piscio e polvere, di sangue e di velocità, perché Ben lo diceva sempre ai ragazzi, e i muri sempre lo ascoltavano: “ricordate! esiste una sola cosa che può batterci in velocità!”
Ai muri del cantiere poco importava cosa fosse, e gli altri quattro non avevano mai finito la frase.
Perché non ce n’era bisogno, tutti in cuor loro sapevano di cosa Ben stesse parlando.

Il cantiere aveva quattro anni portati male, dieci piani di cemento e metallo, scale, rampe e voragini, bombolette, mozziconi, piscio, merda, siringhe e carcasse di animali.
Doveva essere il più grande centro commerciale di tutta la città, lì, nella loro merdosissima banlieue.
Doveva essere il riscatto del quartiere, divenne solo un’altra tacca sulla lista delle vergogne.
Divenne solo un enorme scheletro di cemento e merda al centro di una merda di cemento ancora più grande.
Ma era la loro casa.
Quando l’orfanotrofio chiuse i battenti, loro cinque erano gli unici rimasti, e il cantiere divenne il loro covo, la loro tana,
I muri dello scheletro li avevano accolti da subito.
I muri si, che ricordavano.
In principio furono gli eco, le urla, i tonfi delle scarpe da ginnastica, il nugolo di polvere, le caviglie slogate, i polsi rotti e i kong vault sui muretti più bassi, qualche materasso, un paio di lamiere, e Remo che bypassa il cavo della corrente.
Poi vennero i sassi contro i barattoli, il salto delle voragini, le capriole con il sangue sulle mani, le bestemmie e i furti, venne la tv, lo stereo, il frigo e i letti.
Poi arrivarono i muscoli e il sudore, le lunghe distanze e le capriole senza sangue sulle mani, vennero Precisione e Velocità, e con loro, furti migliori.
Lo facevano per vivere, e lo volevano fare nel migliore dei modi.
Divenne il loro lavoro, la loro missione, la loro guerra.
Velocità divenne un singhiozzo spezzato sotto suole di adidas rubate, e Gravità un respiro così lento da sembrare l’ultimo.

“Laura sei di guardia stasera!” disse Remo cercando un altro po’ di polpa nel torsolo di mela rinsecchito.
Laura fece spallucce infilando in bocca l’ultima parte del cono gelato.
Ben guardò l’orologio mentre la luce arancio del tramonto colorava il cemento.
Si avvicinò al bordo e sorrise, l’ombra dello scheletro violentava mezzo quartiere, e in cima ad essa, la sua.
Per un attimo si sentì piccolo e indifeso, e il sorriso scomparve dalle sue labbra, ma fu un attimo di debolezza, subito dopo tornò a sentirsi un Dio.
Un torsolo di mela gli passò accanto finendo dieci piani più sotto.
“Che abbiamo stasera?” Si girò passandosi una mano tra i capelli biondi, arruffati e sporchi.
“Stasera è la sera cocaina” rispose Remo pulendo una mela nuova nuova sulla canottiera e addentandola.
Miha si tirò indietro il cappuccio a muso duro, liberando i rasta: “che cazzo ce ne facciamo di un carico di cocaina?!”
“io voglio un ipod!” brontolò Laura
“la vendiamo!” tagliò corto Ben avvicinandosi alle scale.
“che cazzo dici?! Da quando facciamo cose del genere?” Miha lanciò nel vuoto il morto della canna.
“ci servono soldi Miha, sono stufo di prendere solo quello che ci serve per vivere!”
“vaffanculo Ben, c’è sempre andato bene così, è la vita che ci siamo scelti, di cos’altro abbiamo bisogno?”
“io voglio un Ipod!”
“zitta Laura, lo sai cosa vuol dire questo, Miha?” disse Ben dando le spalle al gruppo e indicando la scritta tatuata sulla schiena.
“si Ben, lo so!”
“significa il moto è più veloce man mano che si avvicina alla fine!! guardaci Miha, sono quattro anni che facciamo questa vita di merda, sono quattro anni che corriamo, e sono quattro anni che non ci fermiamo, viviamo in un cantiere del cazzo che puzza di piscio Miha, non ti sei rotta i coglioni? Dobbiamo essere più veloci della vita stessa per non finire inculati.
Vaffanculo!” s’infervorò “…sono il più grande tra voi e non ho ancora vent’anni! Stiamo bruciando troppo velocemente!! ci serve una svolta, ci serve altro, e ci serve il prima possibile, perché si sta facendo tutto troppo veloce, e io sono stanco di correre!”
I quattro rimasero in silenzio a guardarlo mentre spariva per le scale, il tatuaggio nero sulla schiena bianca rimase nelle loro retine come un monito impresso a fuoco sulla pelle, e come tale, bruciava.
La più piccola alzò la testa e guardò i compagni: “Io voglio un Ipod!”

Il rumore della zip ruppe il silenzio, poi venne il fruscio dei rasta contro il cappuccio.
Le molle delle “bounce” annuirono decise in due piccoli rimbalzi, così come deciso fu lo scrocchio dei denti sulla mela.
Le cuffie del lettore cd si incastrarono perfettamente nei padiglioni del ragazzo algerino, e solo per quella sera gli Sniper abdicarono al trono in favore di un po’ di elettronica, ma solo per quella sera.
“Due sacchi a testa, non di più” parlò Ben con la voce attutita dal collo alto della felpa nera “i corrieri dovrebbero essere quattro, ce ne occuperemo io e Remo, il vostro primo pensiero dev’essere quello di recuperare la roba, se siete in difficoltà, scappate! È tutto chiaro?”
I tre annuirono.
Ben si passò la mano tra i capelli, così biondi da sembrare bianchi nel buio del cantiere, prese fiato e coraggio e sorrise “…esiste una sola cosa che può batterci in velocità!”
I tre annuirono di nuovo, stavolta sorridendo.
“Si va!”
Ben fu il primo.
Il candore dei capelli lasciò una scia nella retina di Ryad, che sorrise e spinse play nel lettore cd.
Sentì il ginocchio scrocchiare leggermente sotto la spinta, e gustò gli attimi che precedono il rilascio di epinefrina.
I muscoli della coscia e del polpaccio presero fiato di scatto, e quando la polvere si rese conto di essere stata alzata era gia troppo tardi.
Remo bloccò la mela tra i denti e gli fu dietro.
“Mi raccomando, attenta!” si preoccupò Miha guardando Laura.
Laura sorrise facendo ciao ciao con la mano, ma l’altra era già sulla scia dei tre.
Flesse i muscoli e fu subito due piani sotto, l’erba folta e la capriola attutirono il colpo.
Superarono la recinzione del cantiere con facilità e iniziarono a scalare.
Ben allacciò le dita tra loro e piegò le ginocchia “forza!”
Ryad fu il primo, salì con il piede sulle mani giunte di Ben che gli diede la spinta necessaria a raggiungere il balcone del signor Vignon, che, nonostante dipingesse regolarmente le grate e annaffiasse sempre le piante, non riusciva a capire perché la vernice continuasse a scrostarsi una notte si e una no e perché le piante fossero così rovinate.
Salirono tutti, e Remo aiutò Ben a issarsi.
Da lì, raggiungere il tetto fu una passeggiata.

Quattro figure scure si muovevano agili tra i tetti della banlieue, correvano contro la brezza estiva, quella che rende gli occhi lucidi e le felpe necessarie.
Correvano e saltavano, saltavano, e poi saltavano di nuovo, le suole onnivore delle scarpe da ginnastica si abbuffavano di tegole, mattonelle, cemento e polvere, si abbeveravano nelle pozzanghere dei tubi in perdita e prendevano fiato quando la distanza tra un tetto e un altro era più lunga del solito.
I ragazzi tutti sorridevano, chi dentro il collo di una felpa, chi dietro una mela, chi sotto un cappuccio e chi a tempo di musica.
Forse quella sera avrebbero fatto qualcosa di diverso, forse qualcosa di cui non sarebbero andati fieri, ma forse per una volta avrebbero intravisto una possibilità nelle loro vite.
“Eccoli!” la notte e la corsa, furono entrambe interrotte dalla voce luminosa di Ben.
I quattro si affacciarono.
Tre piani sotto di loro, tre uomini caricavano delle casse in un camion mentre uno fumava una sigaretta.
“Remo, dall’altra parte, e scendi, Ryad, giù anche tu, ma dalla strada insieme a Miha, io invece scenderò da qui!”
Annuirono e si divisero.
Miha e Ryad scesero passando dalla facciata principale del palazzo e, una volta a terra si affacciarono con cautela nel vicolo, riuscivano a vedere il culo del camion, e, dentro di esso, la merda che avrebbero dovuto rubare.
Remo toccò terra senza il minimo rumore, sorrise nell’oscurità con ancora la mela in bocca.
L’uomo con la Marlboro tra le labbra, pochi attimi dopo, mentre cadeva in terra privo di sensi, si trovò a pensare ad una mela, alla suola di una scarpa che gli schiacciava la sigaretta accesa sul viso, a un dolore acuto ai denti, al sapore metallico del sangue.
Il tizio cadde con un tonfo che insospettì gli altri tre.
Remo rotolò rapido sotto il camion trascinando con se il corpo privo di sensi dell’uomo.
Uno dei tre girò attorno al camion per vedere cosa fosse successo, in quel momento Ben atterrò tra gli altri due e, con silenziosissimo rigore mise in pratica ciò che quattro anni di Bruce Lee gli avevano insegnato.
Caricò l’intero peso del corpo nel polso sinistro per poi scaricarlo con violenza sul plesso solare di uno dei due uomini.
Girò su se stesso, alzò la gamba e scaraventò il tallone contro la mascella dell’altro, che rovinò a terra dopo un paio di giri.
Remo, da sotto il camion, afferrò per le caviglie l’ultimo rimasto in piedi e lo tirò a se facendolo cadere faccia in avanti.
Tutto tacque per qualche secondo.
“forza!” urlò piano Ben.
Ryad e Miha corsero nel vicolo, salirono agili sul retro del camion e aprirono uno scatolone, era pieno di scatole di cellulari, ne aprirono un altro, ipod, un altro ancora, caffè.
“un classico!” disse Ryad mentre bucava un sacchetto con il coltellino, tirandolo fuori sporco di polvere bianca “ma questi non la guardano la tv?” sorrise tirando i sacchetti di coca ai compagni in attesa.
Scesero dal camion e si allontanarono di corsa.
“Cazzo!” disse Ben tornando indietro.
Gli altri lo videro sparire nel vicolo e ricomparire pochi secondi dopo “L’ipod per Laura!” disse sorridendo e mostrando la scatola ancora imballata.

I tetti scivolavano leggeri sotto gli otto piedi stanchi, mentre ripercorrevano a ritroso la strada verso la banlieue.
Il silenzio di Ben riempiva le orecchie degli altri.
Si tastò le tasche, gonfie per via dei sacchetti.
Era il loro capo, lo avrebbero seguito all’inferno, e lui sapeva che era ciò che stavano facendo in quel momento.
Fece un respiro incerto nella corsa, scrollandosi di dosso i pensieri.

Lo scheletro era silenzioso.
“Laura!” la voce di Ben riecheggiò a lungo negli enormi spazi vuoti e bui.
Ci fu una violenta esplosione di bianco, i ragazzi gemettero portandosi le mani davanti agli occhi.
I faretti che usavano per l’illuminazione erano rivolti verso di loro, accecandoli.
Piano, i ragazzi riaprirono gli occhi, mentre due figure camminavano controluce verso di loro.
“Lasciami, pezzo di merda!” si dimenò Laura mentre uno dei due la teneva ferma.
“Sbirri!” sibilò Ben a denti stretti cercando di recuperare la vista.
“proprio così ragazzino, è un po’ che vi teniamo d’occhio, ed ero sicuro che prima o poi avreste fatto qualche cazzata!” la voce era roca e l’alito un posacenere.
Remo scattò in avanti come un fulmine superando i faretti e guardandosi attorno rapido “sono undici, Ben!”
Era già successo altre volte, pensavano di avere l’effetto sorpresa, pensavano di poterli fregare a casa loro.
Non era la prima volta.
Non era mai la prima volta.
Quello grosso lasciò la presa su Laura quando le unghie di Miha gli penetrarono violente nelle pupille.
Posacenere si girò verso il compagno che urlava, e non vide l’adidas abbattersi sul suo naso.
Ma vide le stelle subito dopo, quelle le vide, e sentì il calore del sangue e delle lacrime.
“Prendeteli!” urlò tamponandosi il naso con le mani.
I cinque erano già al piano di sopra, correvano.
“stai bene?” chiese Ben guardando Laura.
La ragazza annuì.
“Ti ho portato l’ipod, dopo te lo do!” le sorrise Ben.
Laura gli sorrise anche lei.

Non era la prima volta.
Gli sbirri erano prevedibili.
Era come giocare a guardie e ladri, era questo che era in fondo, un gioco.
I cinque scappavano, gli sbirri li inseguivano, era facile, era sempre stato tutto così prevedibile, una recita messa in scena fin troppe volte.
Sarebbero rimasti lontani dallo scheletro una settimana al massimo, poi sarebbero tornati, e avrebbero ricominciato da capo.
Era così che funzionava, era la loro vita.
Ben sorrise saltando dal bordo del secondo piano contro una colonna di cemento, calandosi.
Gli altri lo imitarono e in breve si trovarono tutti davanti la recinzione.
La scavalcarono con facilita, come sempre.
E si voltarono indietro.
Nello scheletro, i lampi affannati delle torce dei poliziotti strapparono un sorriso ad ognuno di loro.
Era stato facile.
Come sempre.
L’asfalto prese a correre sotto le loro scarpe da ginnastica, mentre il terrazzo del signor Vignon si preparava ad essere violato per la seconda volta quella notte.
Ci fu un botto.
Benjamin Zeena, detto Ben, giunse le mani e piegò le ginocchia girandosi per accogliere i piedi dei suoi compagni.
Fu in quel momento che la vide.
Il suo MOTUS IN FINE VELOCIOR.
Fu un lieve luccichio nel buio
Fu veloce.
Fu indolore.
Fu ciò che ripeteva da anni ai suoi compagni di sventure.
Fu ciò che sapeva nessuno di loro avrebbe potuto battere in velocità.
Fu un proiettile.
Fu la morte.
Prima di accasciarsi, Ben sorrise del sorriso di chi ammette di essere stato sconfitto dal migliore.

I quattro ragazzi rimasero immobili.
In piedi davanti al loro amico.
Ma non guardavano lui.
“Che cazzo hai fatto! Che cazzo hai fatto!” Posacenere, tamponandosi il naso, correva verso un ragazzo in uniforme, e urlava.
Il ragazzo aveva l’età di Ben, anno più, anno meno.
Nella mano tremante la pistola ancora calda.
Nell’orecchio le urla di Posacenere attutite dal fischio dello sparo.
Sul viso due righe: una goccia di paura e una lacrima di consapevolezza.

L’ipod ancora imballato era scivolato dalla tasca nella caduta.
Laura lo raccolse e lo ripulì del sangue con un lembo della canottiera rosa, mentre una lacrima le scendeva sul viso.
“Esiste una sola cosa che può batterci in velocità!” sospirò Miha con la voce di chi sta per iniziare a piangere, mentre chiudeva gli occhi dell’amico, del fratello. “Fino a quel momento faremo ciò che abbiamo sempre fatto!”
“Fermi!” urlò Posacenere, ma il buio di un vicolo aveva già risucchiato i quattro ragazzi.
Imprecò in silenzio dimenticando per qualche secondo naso, sangue e fazzoletto.

In terra, Ben Zeena, sorrideva ad occhi chiusi, immobile.
Nell’oscurità, quattro figure sfidavano Velocità e Gravità lasciando dietro di loro lacrime e pensieri.
Portandosi dietro Rabbia e Dolore, avrebbero continuato a fare ciò che avevano sempre fatto.
E pregustando il calore di un abbraccio, Odio e Vendetta, li seguivano poco distanti.
Sorridendo.



Giacomo Andrea Bevilacqua
Nasce il 22 giugno del 1983.
Disegnatore per l'EURA editoriale dal 2006, dopo un numero di "Detecrive Dante", "Trapassat Inc." e storie libere, ora sta lavorando con Bartoli su una nuova serie per "Lanciostory". Character designer e storyboarder per cinema e pubblicità.
Scrive e recita testi di cabaret per teatro e tv.
Il suo blog lo trovate QUI.

2 commenti:

Gisel_B ha detto...

molto bello, toccante e ben narrato.

RRobe ha detto...

Mi è piaciuto un sacco.
E m'ha ricordato Subway, non so perché.