La notte sembrava un’alba impazzita, illuminata dal frastuono di centinaia di piccoli incendi ed esplosioni.
Erano tutti fermi ai nastri di partenza, imprigionati in un’attesa che sapeva di terra e polvere da sparo.
Nelle loro menti c’era spazio solo per le loro gambe: dovevano correre fino a perdersi nel vento, più veloci di quel gelido morso metallico che quando ti prende non ti lascia più.
Tutti guardavano tutti, sapevano che a breve pochi avrebbero guardato pochi, ma nessuno disse una parola.
Il silenzio era il grido più forte che avevano.
Il sergente guardò il capitano, che prese in mano la sua pistola.
Contò fino a tre, e tra ogni numero trascorse un’eternità.
Sparò un unico proiettile in aria, colpendo però chissà quante stelle.
Una macchia nera di uomini uscì fuori dalla trincea, fucile alla mano e molte speranze nel cuore.
Il vento soffiava freddo, e l’aria gli bruciava nei polmoni.
Il nemico cominciò a sibilare la sua ossessiva ripetizione di morte: tarattatata e alcune gambe finirono la loro corsa senza neanche averla cominciata.
Nessuno prestava attenzione a chi cadeva e chi rimaneva, erano tutti troppo impegnati a perdersi nel vento, a correre più veloci delle pallottole.
Sulla terra gonfia di fango si alternavano frenetiche migliaia di impronte, ognuna persa in mille differenti direzioni, fino a comporre un disegno senza senso che alcuni chiamavano speranza.
La mitraglia colpiva a caso, senza distinguere i più veloci dai più lenti, i più coraggiosi dai più codardi, e correre era solo un modo per morire migliore degli altri.
Se proprio devo morire, voglio farlo nel vento pensavano quei poveri pazzi, illusi da quella piccola imprecisione del destino erroneamente ribattezzata fortuna.
Affogare nel proprio fiato, ascoltare il petto ansimare la sua fatica, vedere la notte ed i suoi bagliori confondersi in un'unica immagine significava ingannare la paura e costringerla nelle pieghe della fatica.
Sempre più veloci, fino quasi a volare sulle ali dell’incoscienza.
Meno ossigeno arrivava al cervello, più dolce si faceva il morso del proiettile.
Al traguardo si giungeva per forza d’inerzia, senza braccia alzate e voglia di festeggiare. Veloci bisognava puntare il fucile e ricambiare l’accoglienza ricevuta. Piombo chiama piombo, morte vuole altra morte.
La trincea spegneva le sue luci, la sua ritmica musica esauriva la sua forza.
La notte tornava ad essere notte, mentre nel buio un lieve lamento cominciava a mugulare il suo dolore.
Lentamente i pochi sopravvissuti seppellivano i cadaveri dei molti morti velocemente.




Giulio Antonio Gualtieri nasce a Roma il 16 gennaio 1985. Universalmente riconosciuto come un bimbo bellissimo, dopo i primi due anni di vita subisce una terribile decadenza a livello fisico che sembra non avere ancora fine. I primi risultati scolastici sono più che promettenti, ma durante l’adolescenza perde ogni interesse per lo studio: si racconta che nella sua cartella ci fossero solo fumetti di ogni genere. Si riscatta all’Università, dove ottiene una laurea breve con lode in filosofia nel 2007, e dove tutt’ora è possibile avvistarlo a lezione. Lettore onnivoro, circa due anni fa decide di fare il salto della barricata, e comincia a scrivere fumetti e racconti, con alterne fortune.
Se volete insultarlo, potete farlo qui

4 commenti:

Il Gabbrio ha detto...

Bella Giulio!!! Mi ricordo il soggetto da quella chiacchierata a Piazza Bologna...hai reso molto bene l'immagine di quei poveri soldati (se penso che molti erano molto più giovani di noi rabbrividisco)...mi è piaciuto molto!

Slum King ha detto...

Bello. Ho trovato il tema del racconto non banale e la descrizione molto sentita, a tratti poetica. Voto!

Ele ha detto...

Grande!
come sempre belle parole, bel ritmo e poetica!

buona fortuna!

Spiridion ha detto...

Grazie a tutti!

giro i complimenti ( l'ho già fatto, ma mi ripeto) al Gabbrio e ad Elena per i racconti, e grazie a Slum king per la fiducia dimostrata nei miei confronti..