New Mexico. 1948

Mi piace, guidare di notte nel deserto. Ma questa notte non ho tempo di godermi il fresco della passeggiata. Stanotte sono qui per lavorare.
Ci sono stati diversi incidenti su questa strada, nelle ultime due settimane. Senza testimoni nè sopravvissuti. Solo relitti. Auto distrutte, volate fuori dal nastro di asfalto alla velocità massima. Ruote che esplodono, veicoli che volano in aria e ricadono per terra. Oltre a quindici morti: commessi viaggiatori, turisti, impiegati. Gente normale. L’ultimo è stato lo sceriffo della contea, un paio di notti fa.
Ieri, finalmente, qualcuno si è accorto che c’è qualcosa che non va. Così alla fine si sono decisi a chiamarmi. Perché questo è il genere di cose di cui mi occupo, da un po’ di tempo.
Fino all’anno scorso, ero un agente della polizia di Los Angeles. Avevo intuito che stavano succedendo delle cose piuttosto strane in città. Ma pensavo che si trattasse solo di persone malate. Deformi. Con malattie alla pelle.
Poi un giorno, a Chinatown, ho dovuto far saltare in aria un figlio di puttana alto quattro metri, con le corna a punta e le ali. Tutto rosso. Ho fatto saltare in aria con i fuochi d’artificio dei musi gialli mezzo isolato, per tirarlo giù. Non ricordo più nemmeno quanti morti ci sono stati, tra quelli sbranati da lui e quelli causati dal mio botto fuori stagione. Mi hanno cacciato a calci fuori dalla polizia. A mezzogiorno, non avevo più un lavoro. Ma vedi come sono gli Stati Uniti: nemmeno ventiquattr’ore dopo, ne avevo uno nuovo. Dare la caccia agli invasori.
Che invasori? Beh, abbiamo combinato un bel casino con le bombe atomiche. In breve, abbiamo aperto un varco su un altro mondo. Un mondo popolato da mostri con le zanne che non hanno nulla di meglio da fare che venire qui e cercare di ammazzarci tutti.
Io faccio parte di una struttura segreta. Così segreta che al confronto la CIA è il club di Topolino. Abbiamo diverse sezioni. Alcuni cercano di rimandare il più possibile il momento in cui la gente si renderà conto di che cosa sta succedendo davvero. Altri, gli apprendisti stregoni, lavorano alla chiusura di questo dannato varco. Io mi occupo di eliminazioni. Faccio a pezzi i bastardi, quando li trovo. Un buon lavoro, tutto sommato: vai in giro, incontri dei mostri li uccidi. Se non pensi che il tuo capo è Adolf Hitler, è stupendo. Ma del resto, lo zio Sam non serba rancore. Puoi essere un pazzo assassino e genocida, ma se sei il miglior mago sulla piazza proprio quando ce n’è bisogno... beh, benvenuto a bordo, figliolo.
Vita del cazzo.

Comunque, sono partito questa mattina con un volo da Los Angeles. Destinazione, una base militare del New Mexico. Lì mi hanno dato una macchina, una cartina stradale e una pacca sulla spalla per augurarmi buona fortuna.
Secondo la nostra sezione locale, c’è qualcosa di strano nei valori delle rilevazioni di energia su questa strada. Avrebbero dovuto pensarci prima a farle, le rilevazioni, senza aspettare che uno sceriffo ci lasciasse la pelle e qualcuno si decidesse a prendere la cosa sul serio. Lo so persino io che le prime prove per la Bomba le hanno fatte da queste parti. Teste d’uovo dei miei stivali.

La strada è deserta. Mi hanno detto che gli incidenti degli ultimi giorni hanno convinto molti guidatori a preferire strade secondarie. O a non guidare di notte.
Che cosa avranno visto, quei poveracci, per dare gas fino a far distruggere la macchina, fino a volare fuori strada su una strada dritta come la canna di un fucile? Senza dubbio qualcosa di spaventoso e ostile. Qualcosa che li ha spinti a fuggire come se avessero avuto il diavolo alle calcagna. E in effetti probabilmente ce l’avevano anche.
Resta un fatto: i cadaveri presentavano solo ferite riconducibili all’incidente. Il che è strano però, perché i demoni amano la tortura e la sofferenza. Le morti dei giorni scorsi, invece, sono state tutte piuttosto rapide o immediate.
Guardo l’ora. Sono appena le 2 passate. Di sonno, nemmeno l’ombra: mi tengono su le pillole e il caffè che ho preso prima di mettermi a guidare. Ho solo una gran noia. Tengo d’occhio la strada, con le mani ben salde sul volante, pronto a reagire al minimo imprevisto, ma non c’è nulla da vedere, nulla da fare. Non succede nulla. Non ho visto nemmeno una macchina, da quando ho imboccato la strada un’ora fa. Altri dieci minuti così e sarò io il prossimo morto. Suicida per la noia.
Al diavolo, devo inventarmi qualcosa.
In effetti, saprei anche cosa.
La macchina che ho sotto il culo non è una macchina qualunque, anche se da fuori lo può sembrare. Il segreto sta sotto il cofano. Quando me l’hanno data, quelli della base di qui mi hanno raccomandato di fare molta attenzione. Il motore è un modello sperimentale. Va forte, molto forte. La carrozzeria e tutte le altre parti sono state modificate e rinforzate per poter sopportare la velocità massima raggiungibile. Che finora nessuno ha mai raggiunto. Nessuno ha ancora avuto il fegato di spingerla così forte.
Beh, mi dico, magari non sarò io quello che domerà la bestia, ma almeno voglio togliermi la soddisfazione di sentire quanto forte sa sgroppare.
Spengo la radio, ormai stufo della musica e mi preparo a sentire la canzone del motore.
Finora ho tenuto una velocità di crociera normale. Nulla che non avessi già fatto con altre macchine. Ora inizio a schiacciare il pedale come si deve. Il motore reagisce subito come un cavallo obbediente e la strada inizia a scorrere più forte.
L’accelerazione è fluida. La brezza che entra dal finestrino aperto si trasforma in un vento sostenuto.
Meglio, già meglio.
Verifico la reazione delle gomme con una serie di colpi rapidi di volante a destra e sinistra, come se stessi affrontando uno slalom. Tutto perfetto. Sorrido soddisfatto nello specchietto.
Poi il sorriso mi si ghiaccia sul muso: mi accorgo di una specie di bagliore azzurro, come un lampo ai confini del mio campo visivo, sulla sinistra.
Ora c’è qualcosa, di fianco alla macchina.
Qualcosa che corre su un paio di lunghe zampe posteriori, che ha il corpo affusolato coperto di scaglie, braccia quasi inesistenti e una grossa bocca piena di zanne. Sto viaggiando a 90 miglia orarie e lui mi sta accanto. E mi guarda. I suoi occhi brillano come il fuoco.
Un demone, un fottuto demone.
Ora, lo so quale sarebbe la cosa giusta da fare: afferrare il fucile, puntarlo attraverso il finestrino aperto, tirare il grilletto e poi tornare indietro a raccogliere i pezzi di questo bastardo. Lo so, ma non la faccio. Non ci riesco a farla.
Non voglio farla.
Che cosa voglio fare, allora?
Accelerare. Solo accelerare.
Voglio spingere questa macchina oltre ogni suo limite.
Voglio sentire il vento sulla faccia, voglio vedere il mondo che sfuma e passa oltre ridotto a una macchia di calore.
Voglio sentire bruciare la benzina, le gomme, l’asfalto.
Voglio sentire il ruggito del motore e il vento che mi urla addosso.
Voglio correre, diventare vento, fuoco, acciaio, asfalto, gomma.
Non c’è nient’altro. Niente al di fuori della strada, della macchina, della cosa che mi sta accanto.
Nient’altro al di là dei suoi occhi di fuoco e della sua voce nella mia testa. Una voce che mi dice più veloce, più veloce, più VELOCE.

Una voce che conosco.

Era il 1942. In Francia. Ero là come membro di un commando spedito in territorio nemico. La nostra missione: aiutare la resistenza locale, preparare il terreno all’invasione futura.
Tre mesi di inferno, conclusi da un’azione suicida o quasi.
Un pezzo grosso della resistenza, uno che sapeva molte cose ed era l’unico a saperle, era finito in mano ai nazi. Lo avevano catturato nel corso di della più riuscita operazione di bonifica che la Wehrmacht avesse mai messo in piedi. Chi di noi è sopravvissuto non ha mai potuto dimenticare la lezione di rastrellamento che i crucchi ci hanno dato. Erano piombati in massa sulla vallata dove ci eravamo rifugiati, erano sbucati da chissà dove e nel giro di dieci minuti il bosco brulicava di divise grigie. Ci avevano avvolti come in una rete.
Del mio gruppo eravamo usciti vivi in una dozzina, da quella giornata. Altri si erano messi in salvo sull’altro versante, tagliati fuori da noi. Sapevamo che non era finita: dovevamo riprenderci il capo, un marsigliese che si faceva chiamare lo Scuro. Dovevamo farlo subito, non avevamo tempo di aspettare che il resto degli uomini si riunisse a noi. Ma disperati come eravamo, avevamo potuto concepire solo un piano disperato: un’irruzione nella prigione in cui era tenuto. Un assalto frontale, armi in pugno. Un piano così folle e irrealizzabile che i nazi non lo avevano nemmeno messo in conto.
Coglioni orgogliosi. Erano così convinti di averci annientato che non avevano pensato alla possibilità che qualcuno sarebbe tornato a riprendersi lo Scuro.
Così, invece di più soldati di quanti avremmo mai potuto immaginare, ce ne trovammo davanti solo molti. Proprio per questo riuscimmo a liberare lo Scuro, ma non fu una passeggiata. Tutti i miei compagni caddero sotto il fuoco nemico. Alla fine rimasi solo io. Caricai il mangiarane sul posto del passeggero di un side-car e mi lanciai in fuga, verso l’ultima parte del piano.
Questa prevedeva che si fuggisse attraversando una galleria, l’unica strada per uscire in fretta da quella vallata. Noi l’avevamo minata, prima di partire, ma non potevamo permetterci di lasciare indietro qualcuno che facesse saltare le cariche al momento giusto. Non avevamo nemmeno più radio-comandi per il detonatore: a quel punto, era già tanto se avevamo le munizioni. Così avevamo impostato un congegno a orologeria, stabilendo un tempo ragionevole.
Un tempo che, nel momento in cui avevo imboccato la galleria, inseguito da un camion pieno zeppo di SS e dal loro fuoco indiavolato, stava quasi per scadere.
Avevo accelerato, ruotando la manopola fino quasi a spezzarmi il polso e l’avevo sentita, in quel momento, la voce. La voce che diceva più forte. Poi ho visto il mondo sfocarsi in una massa indistinta di colore, sfrecciare ai lati e davanti a me, scomparire.
Ricordo di aver riso, a un certo punto. Sentivo la moto, una robusta motocicletta tedesca, ingegneria e meccanica allo stato dell’arte, implorare pietà.
Non avrebbe retto ancora a lungo. Io non avrei retto ancora a lungo. Nemmeno lo Scuro non avrebbe retto a lungo.
Lo sapevo, ma non me importava nulla. In quell’istante ero libero. Era come se facessi parte dello stesso vento umido che avevo sulla faccia, di quell’aria che sapeva di terra e roccia. La guerra, lo Scuro, Hitler, nessuno di loro importava più. Io non importavo più. Volevo solo correre. Essere veloce. Più veloce di qualsiasi altro stronzo che abbia mai creduto di essere veloce.
Ci siamo già visti, io e chi ora mi corre di fianco. Ma era un altro tempo e il mondo era diverso: non potevo ancora vedere il suo brutto muso, ma solo percepire la sua presenza.
Nel 1942 fu l’esplosione che facendo crollare la montagna dietro di me a richiamarmi alla realtà. Ero appena uscito dal tunnel. Fu come il ruggito di un drago. I tedeschi ci rimasero sotto tutti, fino all’ultimo Fritz. Io avevo continuato rallentando solo di quel poco che bastava a non far scoppiare il motore, ma senza più sentire quella sensazione di ebbrezza. La parte in cui per vivere dovevo essere veloce era finita. Di lì a poco, avrei fermato la moto e mi sarei trascinato il marsigliese sulle spalle in una lunga fuga per i boschi.
Adesso, a salvarmi è una grossa spia rossa che lampeggia sul cruscotto, mentre una sirena suona a intervalli regolari. Sono gli allarmi dell’auto, mi avvisano che sto raggiungendo la velocità massima. Devo averci proprio dato dentro con l’acceleratore, senza nemmeno accorgermene. Una grossa spia rossa lampeggia sul cruscotto, mentre una sirena suona a intervalli regolari.
Il coso con gli occhi di fuoco è sempre lì. Ma non ha più potere. Non su di me.
Non cercherò di andare più veloce di lui. Non lo farò perché so non è possibile. Non farò il suo gioco.
Se ricordo qualcosa del corso teorico, questo è un demone di seconda classe. Demoni ideologici, li chiamano. Vizi, in altre parole. Personificazioni di vizi. Demoni minori, comunque. Bulletti stupidi che non hanno ancora capito una cosa fondamentale per la loro sopravvivenza da queste parti: hanno un corpo.
Ma io conosco un modo per far capire a questo ragazzo testardo che l’essere una semplice idea è diverso dall’essere un’idea incarnata in una forma fisica e questo modo consiste in una buona sterzata verso sinistra.
Quasi posso vederla la sorpresa nei suoi occhi mentre una tonnellata di buon metallo americano lo investe a una velocità di crociera più adatta a una pista di decollo che a una strada.
La macchina è blindata e appesantita per farle reggere le alte velocità, ma anche l’idea si è incarnata in un corpo coriaceo. Per un attimo ho paura che l’auto non terrà la strada. Che sarò io il prossimo a lasciarci le penne. Ma è un attimo soltanto: le ruote posteriori saltano su qualcosa che prima offre resistenza e poi cede. Sono di nuovo con tutte e quattro le ruote sull’asfalto. La macchina sbanda, le gomme fischiano ma non è niente che non possa controllare.
Ora so che se dovesse andare male con i demoni, posso provare con le corse in macchina.
Riporto la macchina in carreggiata e a una velocità normale. Nello specchietto vedo che ora il demone è a terra, che si contorce in mezzo alla strada. Cerca di alzarsi in piedi, ma una zampa è andata. Povero ragazzo.
Faccio un’inversione a U. I fari lo illuminano. Mi guarda. Si rende conto di quello che sta per succedere Sembra un cervo paralizzato dalla paura.
Accelero. Il motore sembra non avere risentito dello sforzo di poco prima. 88 miglia all’ora in un attimo. Il mostro ringhia per la rabbia, ma non lo sento quasi.
L’impatto questa volta è davvero devastante. La macchina fa un bel salto, mentre un’esplosione di materia organica inonda il parabrezza. Qualcosa entra pure dal finestrino. Puzza peggio della merda, ma ormai ci sono abituato.
Credo che il porco sia andato. Per sicurezza, metto la retro e gli passo sopra ancora una volta.
Poi lo faccio altre due volte. Mi piace il rumore che fa.

Missione compiuta.
Secondo i patti, dovrei riportare la macchina dove l’ho presa.
Guardo l’ora. È ancora presto. Ho ancora in corpo troppa adrenalina, troppa agitazione per chiudere qui.
Pulisco il vetro alla buona con il tergicristallo. Ricordo di aver visto un autolavaggio, a una cinquantina di miglia da qui. Mi fermerò lì per il pieno e per farmi pulire per bene il vetro, prima di ripartire. Magari anche una fetta di torta di mele, se la tavola calda è aperta. E poi ripartirò.
Dovrei riportare la macchina dove l’ho presa, è vero. Il fatto è che sono curioso di vedere quanto ci metto ad arrivare a Los Angeles. Spengo la ricetrasmittente, tiro giù del tutto il finestrino e lascio che il motore canti una serenata al demone della velocità a cui abbiamo fatto la pelle stanotte.



Alessandro Vicenzi, 1979, collabora ad Ayaaaak.net ed è stato tra gli autori del romanzo collettivo "La Potenza di Eymerich". Di tanto in tanto scrive fanfiction per il sito MarvelIT.
Per la cronaca, non ha mai guidato nessun veicolo più potente di un Ciao.

3 commenti:

RRobe ha detto...

Carini alcuni spunti, un pelo scontati molti altri.
Si dilunga in una parte noiosetta quando racconta il passato e ha certi elementi (tanto nell'idea quanto nel linguaggio) troppo legati a certi stereotipi già visti.
Non è brutto. Ma per me non è abbastanza veloce da gareggiare tra i primi.

scott_ronson ha detto...

che dire?
A mia discolpa, posso dire che il "già visto" era abbastanza voluto. Il tutto è qualcosa tra Hellboy e Brad Barron, esattamente come volevo.
però è vero, il flashback è pesantissimo, a rileggerlo a mente più fredda. Prendo nota per future revisioni.
grazie del commento!

ubimario ha detto...

Allora, c'è il flashback, di cui s'è detto. Ci sono un po' di digressioni, parentesi, etc.
Magari aiutano a spiegare la scena, ma forse potevano essere sottintese, e chi non le capisce si arrangia.
E poi finiscono per rendere il pezzo un po' lungo (che in assoluto non è grave, ma in un racconto "di velocità" comincia a diventarlo) e per sterilizzare la battuta finale che invece doveva dare la misura al tutto.

Comunque lo voto, eh. Tanto, di tutti gli altri che ho letto (quasi tutti) mi è piaciuto solo quello di Furchi. Mi aspettavo di più, soprattutto da quelli famosi (tranne Melissa P).