Alle ventidue e diciotto entra in un posto speciale, fatto per gente più o meno come lui, di solito mezzo vuoto e con la metà piena che non ha voglia di far domande.
Un vecchio pub proprio come quelli che Dio comanda, sissignore, con le coppiette che aggrovigliano dita e parole melense ai tavoli, mentre la clientela rispettabile sta a bere e discutere al bancone, un blocco di legno massiccio e livido, pieno di cicatrici che raccontano in frammenti storie di amori, passioni sportive e ribellioni all’universo tutto.
Sono davvero pochi a sapere che lui e quelli come lui, ogni tanto, si concedono uno stacco in posti come questo. Come se fare due chiacchiere con un amico e bersi qualcosa, fossero cose di cui dover rendere conto a qualcuno.
Beh, stasera no di sicuro.
Non c’è nessuno, né la clientela rispettabile né le coppiette. Solo la televisione, che racconta storie di collisioni a un pubblico inesistente, un paio di cameriere impegnate a chiacchierare tra di loro e il Baffo a fare i conti dietro alla cassa.

“Cerchi gli altri?”, lo saluta il Baffo, quando entra. Tutte le volte che vedi il suo cranio lucido e i baffoni spioventi, la prima cosa che hai in mente è di trovarti davanti alla prova generale per dare ai trichechi il diritto di voto. La seconda è che Baffo, come nome, gli sta addosso meglio di un vestito nuovo.
“Cercavo giusto Antonio. L’hai mica visto?”
Il Baffo aggrotta le sopracciglia e poi rivolge una rapida occhiata al locale spoglio, come se Antonio possa starsene lì, nascosto dietro una delle panche ai tavoli. Scuote la testa.
“Guarda, sono sicuro che fa un salto poi. Che prendi?”
“Mezza Guiness”
“Solo mezza?”
“Mezza”
Il Baffo annuisce, segna su un pezzo di carta e spina la birra. Intanto trova il tempo di annuire di nuovo.
“Come va?”, chiede poi.
“Eh, va così”
Il suo tricheco preferito gli schiaffa la birra davanti. Poi perfino i suoi baffi sembrano farsi seri, di colpo più verticali e spioventi. “Così come?”
“Così… niente di che. Solita giornata, insomma”

Nello stesso momento, sempre alle ventidue e diciotto, appare in un paesino vicino Vienna per salvare due bambini da un incendio. Ha giusto il tempo di guardare le fiamme che si fanno più alte e più spietate nella loro danza. L’orribile casermone popolare manda guizzi di rivalsa contro tutti gli anni in cui è rimasto lì, buono e invisibile, in uno dei quartieri più brutti della città. Le finestre esplodono in sincrono con l’urlo acuto della madre dei piccoli, che si strappa i capelli mentre - tutt’intorno - la folla di gente annuisce, si limita a dar la colpa alle stufe a gas e a vedere come diavolo andrà a finire.
Stanno tutti zitti, quando arriva, e la sua sagoma invade il loro orizzonte visivo. Molti non ci credono, si stropicciano gli occhi come nei cartoni animati (ma allora è vero che la gente con le allucinazioni si stropiccia gli occhi, pensa lui) e si sprecano in preghiere come se non avessero mai considerato così appassionante parlare col Padreterno.
Il fatto che anche lui possa avere paura, tanto per cambiare, non è invece motivo di altrettanto interesse. In questo, non è che l’umanità abbia dei gran balzi da gigante: se qualcuno è, per grazia del Signore, un po’ più speciale di altri, ci si dimentica subito che le sue gambe sono ancora abbastanza umane da mettersi a tremare.
Guarda il muro di fuoco davanti a sé, che invade ormai completamente l’ingresso di quello sbiadito condominio e lo fa scoppiettare come una pentola troppo piena di pop-corn. Vede i pompieri che restano impalati a valutare milioni di soluzioni per tirar fuori quei bambini dall’incendio. Nessuna deve sembrare troppo convincente, visto che se rimangono lì.
Sente già un calore insopportabile da qui. Figuriamoci quando si dovrà spostare a passo di saetta verso l’ingresso.

Nello stesso momento (sì, sempre alle ventidue e diciotto, anche se una manciata di secondi un po’ più avanti), appare davanti a un’annoiata nonnetta che sta guardando Sentieri. Le appare proprio a fianco e, quando si accorge che lei sta comunque badando più alle imprese del magnate Philip Spaulding che al resto del mondo, si sposta a coprire televisione.
Questa è pura promozione, intendiamoci, ed è la parte che detesta di più nel suo lavoro. A sua discolpa, tira sempre fuori la storia che non gliel’avevano detto: qualcuno gli aveva accennato l’importanza di farsi vedere spesso, di far girare il suo nome, di non dare mai il tempo alla gente di dimenticarsi. Nulla di diverso da qualunque altro lavoro. Lui però, pensava (e pensa anche adesso, con la donna che di primo acchito allunga il collo per continuare a guardare la tv) che a un certo punto della carriera non ce ne fosse più bisogno.
Beh, errore. È proprio quando sei più famoso, in questo lavoro, che devi investire maggiormente in apparizioni in giro per il mondo.
Lo sconforto lo prende alla gola, nel sentire le zaffate di cibo per gatti e di brodo che fanno cappa in tutta la casa. Non gli piacciono le case delle persone anziane. Ha sempre qualche intolleranza coi loro odori, quella puzza strana che sembra un punto di raccordo tra un ospedale e una casa normale. Eppure, sa di poter fare affidamento quasi solo su chi ha ormai passato la settantina: il ricordo di quando ha provato a fare la sua entrata durante un concerto rock, gli brucia ancora con lo stesso senso di umiliazione della volta in cui è apparso in uno studio legale.

Intanto alle ventidue e venti, Antonio entra nel locale e gli si siede accanto.
“Ho già preso una Guiness”, dice lui.
“Hai veramente le mani bucate”, risponde Antonio, ridendosela di gusto come se avesse fatto la battuta più divertente del mondo.
Lui non ride.
“Allora… hai saputo se cercano qualcuno?”, chiede poi a bassa voce, sperando di non sembrare troppo ansioso.
La lentezza con cui Antonio ordina una birra e fa due chiacchiere con il Baffo, non gli presagisce nulla di buono. Anzi, lo irrita un po’, a essere sinceri. È palese quanto tutto sia solo un tentativo di prendere tempo. La lingua brucia dalla voglia di sbottare in un quindi? anche piuttosto brusco.
Antonio torna a rivolgersi a lui. La faccia torna nel consueto color Grigio Mestizia, tipico di tutte le volte in cui si accenna al discorso.
“No. Purtroppo devi capire che non tutti i gruppi di supereroi cercano dei velocisti”
“Ora dimmi che i velocisti non sono importanti”
“Non dico che non siano importanti. Dico solo che un forzuto fa sempre comodo. O un mutaforma o… che ne so. Un velocista però è già per gruppi consolidati, che possono permettersi di rischiare”.
Il tono di Antonio si fa abbastanza fermo da dargli l’idea che le-cose-stanno-così e abbastanza lieve da non urtare la sua sensibilità. Un brutto ibrido, insomma, che non riesce a ottenere né l’uno né l’altro degli obbiettivi prefissati.
“E se provassi da solo?”
Antonio scuote la testa. “Ti ho già spiegato che non funzionerebbe. I velocisti non fanno tanta strada, da soli”
Lui annuisce. Certo, perché illudersi? È così che vanno le cose.
“Senti – sbotta Antonio esasperato – non dirmi che il lavoro ti manca. La gente ti conosce, ti prega, ti osanna!”
“Sì, ma io… senti, quanti sanno che posso correre così veloce?”
“Un mucchio di gente. È uno dei tanti miracoli che ti sono accreditati”, risponde Antonio, asciutto. Poi alza gli occhi, quando la reazione dell’altro è esattamente come si aspettava.
“Ennò! Ennò! Tutti fanno caso solo al fatto che mi vedono in luoghi diversi contemporaneamente! Com’è che la chiamano? Ubiquità… bilocazione… Loro non sanno che io ci corro, da un posto all’altro!”
“E quindi? Chissenefrega!”, sbotta Antonio, esasperato.
Legittima, come risposta. Anche sensata, pensa lui. Rimane tra la vergogna di dire quello che davvero sta pensando e la consapevolezza che, se non si sfoga adesso, non potrà farlo più.
“Non… non è che quello che faccio ora non mi piaccia. Ma… ma a me piace correre. Io avrei sempre e solo voluto essere un supereroe che corre, e farlo sapere alla gente”
Antonio resta in silenzio per due minuti. Sono i due minuti più lenti e solenni a passare nella storia del mondo.
“Beh… se proprio ci tieni posso presentarti qualcuno”


Alle undici e venticinque del mattino, è in coda. È l’ultimo della fila e aspetta da ore, appollaiato su una sedia di plastica in un lungo corridoio bianco, vuoto.
L’ultimo della fila. Hai voglia di ripeterti gli ultimi saranno i primi (che con le sue ambizioni di velocista porta pure un po’ sfortuna). Rimani sempre uno che ha visto un codazzo, troppo lungo, di gente delusa uscire dalla stessa porta in cui vorrebbe entrare.
Si gira i pollici. Conta i grani del rosario.
Una volta qualcuno gli ha detto che i momenti di lentezza sono i peggiori, per chi ha il potere di…
“Scusi, ha un appuntamento?”
La voce della donna lo fa trasalire. Guarda la segretaria e annuisce. Sì, ha un appuntamento. Dopo tre ore di noia assoluta, dirlo ha un sapore speciale.
“Se vuole seguirmi…”, dice la segretaria. Certo che vuole.
Un attimo. Vuole davvero? È un colloquio importante, accidenti. E lui è stanco, un po’ appannato, un po’ meno sorridente. La tensione, che era riuscito a tener sotto museruola fino ad ora, lo colpisce a tradimento nello stomaco.
Trema un po’. Il sorriso che gli esce sul volto è una carcassa di denti.

“Certo che voglio”, dice alla segretaria e a se stesso, prima di entrare nell’ufficio.

L’uomo vestito da pipistrello è seduto dietro una scrivania, chino su una pila di fogli. Il modo in cui non considera importante guardarlo, è vagamente irritante.

“Lei è…?”
Lui cerca di dire il suo nome. Gli esce un groviglio rauco di parole. Si schiarisce la voce e riprova.
“Francesco da Assisi”, ripete.
L’uomo pipistrello annuisce. Molto sicuro di sé, prende un fascicolo in mezzo agli altri e comincia a sfogliarlo. Francesco non può vederla, dietro la maschera, ma pensa che la fronte sia sicuramente corrugata. Almeno un po’.
“Sì. Abbiamo un fascicolo su di lei. Vediamo… forte empatia con gli animali… guarigione miracolosa… bilocazione…”
“Non è bilocazione, è supervelocità”, corregge lui. E poi, approfittando dell’unico momento in cui l’uomo pipistrello alza lo sguardo verso di lui, decisamente scocciato dalla contraddizione, aggiunge tutto d’un fiato:

“Sono qui appunto per un posto da supervelocista”

Alle undici e trentasei, mentre passeggia per strada, pensa che in fondo non poteva andare diversamente. Non ha curriculum, non è iscritto all’albo, non ha amicizie troppo in alto che contino. Alla faccia di quando pensava che, per uno con la sua reputazione, fosse più facile entrare in questo giro.
Macché, pensa rassegnato. È tutto un magna magna.
E poi va bene la gavetta, ma che l’unico supergruppo ad aver bisogno di un velocista sia un branco di esordienti spagnoli chiamati Aragona Army…
Aveva ragione Antonio. Bisogna accontentarsi di quello che si ha e, in fondo, non è che lui non abbia doni particolari.

Guarda un po’ di vetrine. Non che voglia comprare qualcosa, non gli è mai piaciuto spendere soldi. Lo fa più che altro per guardare il suo riflesso sul vetro, tirare un po’ di somme.
Beh, felice è felice. Massì, dai, aveva ragione Antonio. La gente gli vuole bene, lo conosce. Ha un impiego sicuro e sai quanti giovani santi vorrebbero essere al suo posto? Non è mica come i primi tempi, in cui doveva spaccarsi la schiena di lavoro per farsi un nome.
E non può mica abbandonare tutto così, no? per una cosa, poi, che non si sa nemmeno se può dare reali possibilità professionali o no.
Gli hanno dedicato chiese dappertutto. Mica volterà le spalle a ogni cosa che ha guadagnato, solo per seguire il capriccio di un momento.

Però, se ci pensa, la Spagna non è poi così lontana. Quanto ci vorrà a raggiungerla, cinque minuti? Dieci? Forse un quarto d’ora, se la prende comoda.

Così, tanto per provare, si dice. Muove un passo.
Tanto per conoscere un po’ di gente nuova, che non si sa mai. Intanto ha fatto il secondo passo.
Dai, dobbiamo essere realisti! Mollare tutto per… cosa? Il terzo, il quarto e il quinto passo lo sbalzano già fuori di svariati chilometri.

E quando scopre in che consiste quel cosa per cui dovrebbe mollare tutto, il vento lo frusta già sulla faccia, le piante dei piedi sono in fiamme e il suo sorriso è largo come non è mai stato in tutta la sua vita.



Cristiano Brignola lancia il primo vagito di insulti al mondo nel luglio del 1977. Abbandonata l’ambizione di diventare il nuovo pilota di Goldrake, decide di dedicarsi alla scrittura, tra poesie e racconti. Nel 2005, è tra gli autori de il gioco di ruolo di "John Doe", pubblicato dalla Raven Distribution. Ha paura dei cani e adora le scimmie. Aspira e respira con la stessa frequenza"

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